Complessa e
delicata come un raffinato meccanismo, la nostra mente è esposta a ogni genere
di incidenti, per cui si può comprendere come, nell’arco completo delle azioni
umane, troviamo, accanto alle meraviglie del genio e dell’eroismo, le peggiori
bassezze e patologie. La coscienza si sviluppa dal confronto fra tutte le
determinazioni che distinguiamo nella realtà, quindi anche fra l’io e l’altro; suddivisi
a loro volta in diverse parti, il cervello individua e registra le identità e
le differenze, non con la neutralità di un computer, ma come organo di un’entità
vivente, un singolare metazoo, per il quale il sentire e il volere sono tutt’uno
con il capire. Una coscienza bramosa di comprensione non si ferma all’altrui
consiglio, sospetta che certi limiti siano visti come tali solo per pavidità.
Essa corre i maggiori rischi, e cade spesso nell’errore, ma non ha altro modo
di verificare se sia giusto trattenersi, se l’esperienza tramandata esaurisca
ogni possibilità, o se vi siano altri territori da percorrere. Nel mezzo
dell’impervio cammino, possiamo trovarci nel pantano dell’invidia, termine con
cui si indica un comune errore e l’ingiustizia che produce, qualcosa che appare,
appena la si superi, come un’enorme sciocchezza. Io non ho le qualità che vedo
nei miei simili, se sono tali da attrarre l’attenzione, l’ammirazione, l’amore
di molti? Forse è vero, però alcuni di quei pregi potrebbero essere in me
latenti, e altri, forse, sono sopravvalutati, la gente li apprezza perché non
ha ancora trovato di meglio. Comunque, se l’altro è effettivamente più
simpatico, più bello o più intelligente di me, se è più ricco di me senza aver
rubato, non posso certo fargliene una colpa. Non posso nemmeno prendermela con
i miei genitori, se ho difetti congeniti: non è forse legittimo per chiunque il
desiderio per cui, di solito, si dà la vita e la si fa crescere? Dovevano essi ricorrere
all’ingegneria genetica prima che l’embrione che ero si sviluppasse, in modo da
perfezionarne il DNA? Avrebbero dovuto vivere in un ipotetico futuro, e potersi
permettere la spesa, visto che difficilmente la manipolazione genetica umana,
dovesse un giorno essere legale,
rientrerà mai fra i servizi sanitari pubblici.
Più sensato è ripercorrere i fatti della
vita, comprendere quali tra essi possano averla condizionata negativamente,
specie quando eravamo immaturi: probabilmente riaffioreranno dalla memoria insegnamenti
errati, punizioni ingiuste, violenze, scene traumatizzanti a cui abbiamo
assistito. In tal caso, tuttavia, ci guarderemo dall’emulare il conte di
Montecristo. Differentemente dal romanzo, i danni da noi subiti risalgono alla
nostra infanzia, i colpevoli non sempre sono rintracciabili, forse alcuni di
loro sono malati o morti, o hanno già pagato per qualche malefatta; anche non fosse
così, fargliela pagare legalmente potrebbe essere difficile, se non impossibile.
Da notare che, compiuta la molteplice vendetta, il conte ne ebbe rimorso,
essendosi ricordato che il Vangelo comanda il perdono, e che si lasci a Dio il
giudizio. Proprio da questo deriva che, se c’è un vero cristiano, quello
combatterà la propria eventuale invidia con tutti i santi mezzi. Se, invece,
c’è un pensiero profondamente filosofico, esso ci dirà di voltare pagina, di
guardare anzitutto al bene che, dopotutto, è rimasto in noi, e di coltivarlo,
anche se in questo modo, alla lunga, qualcuno potrebbe cominciare a invidiarci.