venerdì 15 settembre 2017

L'estensione del pensiero

  Nel Seicento, pensiero ed estensione erano separati sostanzialmente secondo Cartesio, e per Spinoza erano due modi dell’unica Sostanza. Oggi che la natura del pensiero è meglio conosciuta, questa contrapposizione cade, e possiamo dire che anche il pensiero ha un’estensione. Possiamo dirlo per diversi aspetti: per lo spazio in cui si svolge, che è quello delle più evolute aree cerebrali; per lo spazio che lo esprime, quello in cui risuonano le parole e quello in cui si materializza, con le opere che da esso procedono; infine, per lo spazio che esso comprende, per ciò che concepisce. Il pensiero ci appartiene, e il suo estendersi dà piacere, come all’essere sensibile lo dà qualunque espansione spazio-temporale. Naturalmente il piacere non sempre è segno attendibile del bene: quando manca la necessaria conoscenza, esso può anzi tradire, come fa l’esca col pesce. Anche la tecnica sviluppatasi nel Novecento ha mostrato un lato ingannevole, e il pensiero stesso, essendo l’espansione tecnica strettamente connessa alla sua, è apparso nella sua pericolosità, visti gli ambigui risultati. Esso si è distaccato dalle fasi precedenti per eccellenti ragioni, il rifiuto della superstizione e della schiavitù, ma oggi si pone addirittura la possibilità di una catastrofica riduzione della vita sulla Terra. Tuttavia, stigmatizzare l’espansione del pensiero in sé non avrebbe senso. È evidente come questa non sottragga nulla agli altri enti: conoscere o capire di più non incide sull’altrui estensione, non la limita maggiormente, come invece avviene con ogni altra acquisizione; procedendo però solo lungo una direzione, quella analitica e orizzontale, trascurando quella sintetica e verticale, essa ha visto tra le sue conseguenze un grave squilibrio tra umanità ed enti naturali, già oggi causa di dolore e morte, e ancor più domani, se non saranno trovati i rimedi. 
   La risposta al difetto di concezione sostanziale, quando se ne percepisce il danno, è di solito la sempreverde fede religiosa trasmessa dagli avi, oppure una d’importazione, o ancora uno dei vari sincretismi di religioni e scienze definiti come esoterici: risposte che si pongono, comunque, al di fuori del sapere, fuori dalla filo-sofia, illusorie quanto alla dinamica espansiva. La sintesi ontologica è quasi inesistente, persino tra i cultori del pensiero. L’ontologia, prima e dopo che il termine fosse coniato, fu posta in subordine alla metafisica, poiché sul concetto sostantivo dell’essere come unico, assoluto e infinito, fu sempre prevalente la credenza dualistica in un mondo intrinsecamente soprasensibile, fatto di puri spiriti e di idee, lo si descrivesse in termini platonici, teologico-aristotelici, teologico-biblici o quant’altro. Dopo i colpi inferti alla metafisica dai positivisti e dai materialisti, una certa emancipazione dell’ontologia si ebbe con Husserl, Hartmann e Heidegger, ma l’auspicabile svolta non ci fu. Ontologia e metafisica continuano tutt’oggi a essere mal distinte, e di solito le si coltiva o le si rigetta insieme. Nell’attuale scuola di ontologia “analitica”, che muove in particolare dal lavoro di Quine, si comprende il bisogno di osservare in questo campo lo stesso rigore metodologico della scuola detta, appunto, analitica; tuttavia, l’aggettivo preclude la prospettiva della totalità concettuale, cui non può accedere che l’ontologia stessa. A quel punto, essa diverrebbe “sintetica”, altrimenti non vi sarebbe alcun innalzamento, neppure individuale. Ciò dovrebbe poi tradursi in espressioni e atti capaci di comunicare ad ampio raggio, ben oltre la ristretta cerchia degli accademici specializzati, perché il mondo ne tragga beneficio. Un mondo che nel frattempo non si ferma, avanza o retrocede come può.

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